La cedolare secca è stata introdotta nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 23/2011, ma di recente è stata soggetta a diversi interventi normativi, tesi a rendere questa forma di tassazione più agevole e adottata dalla platea dei potenziali beneficiari.
Essa consiste, infatti, in una imposizione fiscale fissa sui canoni percepiti dal proprietario di un immobile, in relazione alla locazione per contratti ad uso abitativo, compresi quelli per gli studenti. Si tratta, quindi, degli immobili rientranti nelle categorie catastali A1, A9 e A11, siano essi locati con un contratto a canone libero o concordato. I contratti a canone concordato sono quelli che prevedono un tetto massimo per il canone per metro quadrato, fissato dagli accordi tra i rappresentanti delle categorie dei proprietari di immobili e quelli degli inquilini. Vi rientrano tutti i Comuni capoluoghi di provincia ad alta intensità abitativa, come Milano, Torino, Roma, Bologna, Firenze, Siena, Cagliari, Napoli, Palermo, Catania, Bari.
Per capire di cosa si tratta, occorre meglio fare un passo indietro. Fino a qualche anno fa, il proprietario di un immobile, locato a fini abitativi, aveva come unica forma di tassazione possibile quella che prevedeva l’assoggettamento dei canoni percepiti alle aliquote Irpef, nonché alle relative addizionali comunali e regionali. In sostanza, tali canoni riscossi nel periodo d’imposta erano valutati unicamente alla stregua di un reddito da lavoro. Si prevedeva l’abbattimento del 15%, per cui le aliquote gravavano sul restante 85% dei canoni percepiti. Ne conseguiva che il carico fiscale era legato in maniera diretta al reddito complessivamente dichiarato dal contribuente e proprietario dell’immobile, per cui più questo era elevato, maggiore risultava l’aliquota effettiva pagata.
Questa forma di tassazione è stata spesso considerata inefficiente, ma per ragioni di equità sociale, si preferiva tenerla in vita quale unica possibile, nella convinzione che proprietari più “ricchi” dovessero pagare tasse maggiori sui contratti di locazione, rispetto a proprietari meno fortunati, anche a parità di canoni riscossi.
Anche per ovviare al mai sopito mercato nero degli affitti, il legislatore ha introdotto tale novità, quella della cedolare secca, appunto. Essa inizialmente prevedeva due aliquote, una del 21% sui contratti ordinari, quelli a canone libero, un’altra del 19% sui contratti a canone concordato. Per l’anno 2013, tuttavia, è stato deciso di abbassare la seconda aliquota al 15%, in modo da rendere il contratto a canone concordato relativamente più allettante. Infine, è stato deciso ancora che per il quadriennio 2014-2017, tale aliquota viene abbattuta ulteriormente al 10%, salvo risalire successivamente al 15%.
Pertanto, oggi il proprietario di un immobile locato ad uso abitativo ha davanti due alternative, la prima è pagare le tasse sui canoni riscossi nell’anno con la cedolare secca, comunicando tale decisione di anno in anno sia all’inquilino con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, sia all’Agenzia delle Entrate. Con tale decisione, il conduttore dell’immobile rinuncia a rivalutare per il periodo in cui si avvale della cedolare secca della rivalutazione del canone, ai fini Istat.
In alternativa, il proprietario potrà continuare a versare al Fisco le imposte, assoggettando il 95% dei canoni riscossi (la detrazione ammessa è stata abbassata a solo il 5%) alle aliquote Irpef e relative addizionali.
Di conseguenza, la scelta è puramente lasciata al contribuente, che nell’assumere la decisione verifica ovviamente quale sarà il regime fiscale che nella sua situazione specifica potrebbe tornargli utile, facendogli risparmiare tasse.
Se ai primi tempi dall’introduzione della cedolare secca si era soliti spiegare che questo tipo di imposizione fiscale tendesse ad essere più favorevole per i proprietari con redditi medio-alti, oggi è abbastanza diffuso sentirsi dire che, tranne poche eccezioni, tendenzialmente sarebbe più opportuno assoggettare i canoni percepiti proprio alla cedolare secca.
Infatti, i vantaggi non si esauriscono con quanto sopra detto. Se da un lato, il proprietario non potrà effettuare alcuna rivalutazione del canone per l’anno in cui decide di avvalersi del regime della cedolare secca, dall’altro egli è sgravato dal pagamento dell’imposta di bollo, pari a 16 euro ogni 100 righe di contratto o ogni 4 facciate, così come dell’imposta di registro, pari al 2% del canone annuo, moltiplicato per il numero delle annualità. Si tratta di costi che per convenzione vengono ripartiti in parti uguali tra proprietario e inquilino, salvo diversa disposizione nel contratto medesimo.
Per quanto appena detto, quindi, anche l’inquilino gode più o meno direttamente del regime della cedolare secca. Oltre a non dovere versare le imposte di bollo e di registro per la sua quota parte, egli beneficia del blocco del canone, che non potrà essere rivalutato. In teoria, poi, se il proprietario paga meno tasse sui canoni di locazione percepiti, specie con il regime concordato, sull’inquilino si potrebbero trasferire minori pretese, nel senso che i contratti potrebbero anche essere meno onerosi, grazie alla minore tassazione che grava su di essi.
Nel caso in cui l’immobile fosse di proprietà di due o più soggetti, l’opzione deve essere effettuata da ciascuno di essi per la quota di pertinenza.